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Vecchi e nuovi rospi da ingoiare

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SacramentoBee

Bryan Patrick, la fotografia manipolata e le due fotografie originali (dal Sacramento Bee)

Ci risiamo. Ha proprio ragione il Photo District News, da cui apprendo questa nuova storia di fotoscippi: è il solito copione e io non saprei riassumerlo meglio:

“Il fotografo di un quotidiano viene beccato a manipolare una fotografia, il giornale pubblica una lettera di scuse ai lettori con una dichiarazione che ribadisce la tolleranza zero della redazione e comunica la notizia dell’immediato licenziamento del fotografo in questione; un’organizzazione professionale biasima il fotografo per ammonire gli altri a non precipitare nello stesso scivolo verso la dannazione, e magari spunta anche un parere contrario di un guru dell’informazione…”

Sì, è andato tutto esattamente così anche questa volta, come già accadde molti anni fa al reporter del Los Angeles Times Brian Walski licenziato in tronco per aver pasticciato con Photoshop attorno a un reportage sui profughi in Iraq. Questa volta non ci sono neanche le circostanze attenuanti dello stress da conflitto armato, la fotografia incriminata fa parte di un soleggiato, pacifico, rassicurante servizio naturalistico realizzato in occasione del Galt Winter Bird Festival da un fotografo professionista, Bryan Patrick, e pubblicato dal quotidiano californiano Sacramento Bee. Tenera immagine dell’istante decisivo in cui una mamma aigretta offre per colazione una ranocchia a piccola aigretta, su sfondo altamente cromatico di un’azzurra linda palude.

Ufficialmente sembra sia stato un lettore a dubitare dell’immacolata percezione del fotografo (ma questi lettori, sospettano per default o passano le giornate con la lente d’ingrandimento all’occhio?). Fattostà che la redazione del Bee, riunita in sessione plenaria, indaga e scopre la marachella: Patrick, proprio come fece Walski, ha combinato due immagini diverse per ottenerne una perfetta da due meno perfette; pare che in quella originaria non si capisse abbastanza bene che cosa ha nel becco l’uccello più adulto.

Bene, la sentenza del giornale è stata severa, e quella della National Professional Photographers Organization ancora di più, leggetevele, sono piene delle solite inevitabili indignazioni, scuse, garanzie di severità e perfino grida al “tradimento”.

Ma il copione non è ancora finito, perché ovviamente arriva anche il settimo cavalleggeri a difesa del fotografo massacrato; con Walski si mosse Pedro Meyer, difensore strenuo (e intelligente) del diritto alla manipolazione, ora è il turno di un editorialista del Guardian, Bob Garfield, ma anche i suoi argomenti non sono nuovi, banché spesi con una buona dose di sarcasmo (”Forse era meglio la lapidazione”…). Che dice Garfield? Che Patrick è stato condannato per  aver fatto quello che fa qualsiasi giornalista della parola scritta: una sintesi di ciò che ha visto. Qualsiasi giornalista “photoshhoppa le parole”, dunque che male c’è se lo fa un fotografo?

Bisognerebbe dunque aggiungere un altro atto al solito copione, e tornare a spiegare che parole e fotografie non funzionano allo stesso modo nella mente del lettore, il quale sa come si scrive un articolo e sa anche (o pensa di sapere) come si scatta una fotografia, e sa che sono due procedimenti diversi di costruzione di un messaggio, e si aspetta un resoconto soggettivo dal giornalista di parole e un prelievo oggettivo dal fotoreporter. Che entrambe le aspettative siano ingenue non cambia il fatto che funzionino in questo modo, che quando guardiamo una fotografia ci aspettiamo che quel che ci si vede sia stato “proprio così” nell’istante in cui il fotografo ha aperto l’otturatore; e questa convinzione, per quanto ingenua sia, viene effettivamente tradita se nessuno ci dice che stiamo guardando un fotomontaggio, una fotografia “composita”, un collage di istanti diversi. Cosa cambierebbe? Be’,qualcosa cambia. La differenza può essere ininfluente sotto un aspetto estetico o emotivo, ma molto importante sotto altri aspetti. Uno studioso di etologia animale, tanto per dire, potrebbe trarre conslusioni scientifiche erronee sul modo di porgere il cibo delle aigrette, se si basasse solo sulla fotografia pubblicata. E come ha scritto con la solita ironia Ferdinando Scianna, spostare un pallone nella foto di una partita di calcio può non essere essenziale, sempre che non lo sposti oltre la linea di porta.

Basterebbe allora avvertire il lettore che gli si propone una sintesi di istanti diversi, che non si tratta di attimo ma di narrazione sequenziale condensata, e l’onestà sarebbe salva. Ma questo un fotografo e un giornale non possono dirlo. Non perché sono maligni e bugiardi, ma perché crollerebbe tutto. Perché scrivere “fotomontaggio” o “illustrazione” in un angolino della didascalia toglierebbe ogni interesse alla fotografia. Ed è proprio questo il motivo per cui anche i più “perdonabili” aggiustamenti dell’immagine sono impossibili da confessare. Se una fotografia sembra una fotografia, sarà meglio che lo sia. Se una fotografia confessa di essere un fotomontaggio, non viene più letta come una fotografia, e perde tutto il suo charme.

Fotografia in Hdr di Bill O' Leary, apparsa sulla prima pagina del Washington Post il 13 gennaio 2012

Fotografia in Hdr di Bill O' Leary, apparsa sulla prima pagina del Washington Post il 13 gennaio 2012

Ma vogliamo fare un passo in più? Perché le cose cambiano in fretta, e ne è passata di acqua sotto i ponti della fotografia dai tempi di Walski a quelli di Patrick. La tecnologia ha ingrabugliato le semplici distinzioni di prima. L’idea che, quando si rpeme il pulsante di scatto, viene fermato un singolo istante, è obsoleta. Le fotocamere evolute dispongono di un sistema, che i fotografi lettori di questo blog conoscono molto meglio di me (se mi sbalio , mi corigerete…), chiamato Hdr, High Dynamic Range, che preleva diverse copie dello stesso scatto, sotto diverse condizioni di esposizione e messa a fuoco, e le combina assieme in un’immagine che elimina ogni scarto dalla norma; altre macchine, o forse anche le stesse, prelevano una sequenza di scatti temporalmente successivi e ne scelgono i migliori, e magari qualcuna di esse è già in grado di combinarli all’istante per eliminare difetti di composizione. Tutto ciò, naturalmente, secondo un’estetica e un gusto standardizzati e preimpostati, ma il punto non è questo, il punto è che quel che è costato il posto di lavoro a Walski e a Patrick viene ormai compiuto normalmente, quotidianamente, automaticamente, milioni di volte al giorno, da milioni di fotocamere che producono immagini composite, che tuttavia rientrano perfettamente nei così rigidi e sdegnati “codici etici” del Sacramento Bee e della Nppa. O forse no: almeno, l’austero Washington Post ha sentito il bisogno, ed è una novità positiva da segnalare, di avvisare i suoi lettori che la foto molto colorata di un aereo in decollo al tramonto era stata realizzata con il sistema Hdr. Sempre ammesso che il lettore comune sia in grado di capire di cosa si tratta. Anche di questo è fatta la manipolazione digitale, di scarto nella coscienza comune fra l’intuitivo della manipolazione analogica, fatta di forbici e colla o  di annerimenti e schiaritura, e l’imponderabile della manipolazione numerica dove tutto avviene nelle invisibili sequenze di cifre.

Ho già scritto tempo fa che i codici etici contro le manipolazioni delle fotografie non servono affatto per garantire i lettori, ma per coprire le spalle agli editori, che preferiscono liquidare ogni tanto un’immagine “colpevole” (e il suo autore…), un capro espiatorio rituale, piuttosto che ammettere che la totalità delle immagini che pubblicano i loro giornali, in diversa misura, subiscono manipolazioni piccole o grandi, ma sempre più pesanti e sempre meno evidenti. Non sta nelle garanzie ferree e inconsistenti fornite dai gatekeepers la possibilità dei lettori di difendersi dalle immagini infedeli. Sta nell’intelligenza dei lettori, invece, mettere nel conto che le imamgini infedeli esistono, sono sempre esistite, ora però ci circondano, e quindi non possiamo permetterci di essere ingenui. Che le fotografie non ci dicono nulla, ma ci chiedono molto.

L’utilità delle fotografie per la nostra esperienza del mondo (non la loro verità, che è fragile) è ancora possibile, ma va contrattata volta per volta, e non dipende da quel che la fotografia sembra garantire, ma da quel che noi ne ricaviamo con la nostra testa, anche dubitando di lei. Da buone aigrette, siamo golosi di ranocchie, ma stiamo attenti a non ingoiare rospi.

[Le fotografie incluse in questo articolo, nel rispetto del diritto d'autore, vengono riprodotte ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.]


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